E per stadio un prato di periferia - Nunzio Gambuti

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E per stadio un prato di periferia

La mia anima

E PER STADIO UN PRATO DI PERIFERIA
Il calcio tra chiacchiere, pubblicità e sponsor
di Nunzio Gambuti




Se quella partita io l'abbia vinta non lo saprò mai. Nelle orecchie sento ancora gli applausi dei compagni e degli avversari, mentre negli occhi mi rivedo in quel gesto, che se fossi certo che mi passaste l'irriverenza, potrei confessarvi che qualcosa  di uguale ho visto fare, tempo dopo, a Pelè, nel famoso film "Fuga per la vittoria". Contrapposto a quella certezza però, c'è il mio dubbio: in quel campo non c'erano i pali e la rete a delimitare la porta, ma soltanto due borse buttate là  in tutta fretta, da una parte e dall'altra. Eravamo  agli inizi degli anni sessanta: Sergio Endrigo cantava "Io che amo solo te", la radio trasmetteva "un disco per l'estate" che, poi, riascoltavamo la sera al bar, al juke box, per cinquanta lire, Celentano  iniziava a diventare un mito, mentre muoveva i primi passi Morandi, e soltanto successivamente si sarebbero affacciati alla ribalta quattro ragazzi che avrebbero  segnato un epoca: The Beatles. I nostri genitori portavano ancora sulla pelle i segni della  guerra, e noi, nati intorno agli anni cinquanta, eravamo le prime avanguardie di quei sogni e di quelle speranze che questo nostro paese, tutto da ricostruire, inseguiva. Gli americani attraverso l'O.P.A. - Opera Pontificia Assistenza - continuavano ad  inviare viveri ed indumenti, che permettevano ai più bisognosi di sopravvivere. E quasi a somigliare ad un simbolo di libertà i jeans entravano a far parte dei nostri giovani desideri. Sono passati diversi anni. Molte cose sono cambiate, ed insieme  alle cose anche noi. Nessuno di noi è mai arrivato alla serie "A", ma continuiamo a giocare la nostra partita nello stadio della nostra quotidianità, in una società divenuta arida di sentimenti, dove vincere, spesso, diventa difficile. In questa  società si muove un mondo dove nessuno ha più voglia di ascoltare ma soltanto di parlare, dove ci sentiamo tutti giudici e mai nessuno è l'accusato. E i ragazzi non hanno più bisogno di un prato per giocare, oggi quasi tutti frequentano una  scuola calcio, sognando Maradona, Baggio e denari. Ma di calcio si può anche morire: a Genova è successo poco tempo fa, ma abbiamo imparato a dimenticare in fretta. Quante parole. Ognuno pensa di saperne più degli altri. Oggi sono di moda gli  opinionisti. Gente che, tra processi ed appelli, non ha mai dubbi ma soltanto certezze, senza  capire che anche un calciatore  è fatto di uomo. Per loro, quasi sempre, è vero soltanto il contrario, ed a volte pensiamo che abbiano davvero ragione,  ma soltanto perché parlano sempre dopo. "A questo calcio non gioco più" è il titolo di un'intervista fatta a Sandro Ciotti da Emilio Piervincenzi, al quale il mitico radiocronista confessava: "vedi, se mi giro indietro e ripenso al calcio com'era  e poi riporto avanti la testa e vedo com'è, come posso non essere rammaricato e nostalgico? Oggi contano i mercenari e la televisione, dove sono i personaggi che rendevano simpatico e affascinante questo sport? E dove sono le bandiere, il campanile?  Ripenso a Scopigno e a Rocco, gente che sapeva parlare per dirti qualcosa. E ora vedo robottini che usano le stesse cento parole da "Gazzetta dello Sport" e non tirano fuori un concetto originale che è uno. Fondamentalmente se ne fregano. Così è  diventato il calcio....".
Hai ragione Sandro, unisco il mio pensiero al tuo: in questo sport è rimasto poco di vero, e la pubblicità, assillante presenza, ci ha rubato anche l'ultima emozione. Ripeto anch'io: "A questo calcio non gioco più". Ed il mio spirito libero,  di uomo senza catene, ritorna a correre in quel prato di periferia, rimasto nella mente sempre uguale, dove mille storie ti camminano dietro continuamente. Fermo la mia corsa. Oggi non c'è molta voglia di giocare, so che mancherà qualcuno. Ciao  Nino: oggi sei andato a sederti in tribuna.

Per ricordare un Amico : Nino De Pasquale

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