Quel caro maestro che non potrei dimenticare - Nunzio Gambuti

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Quel caro maestro che non potrei dimenticare

La mia anima

Settembre 2000


QUEL CARO MAESTRO CHE NON POTREI DIMENTICARE

Perché ci sono ragazzi che non amano andare a scuola?

di Nunzio Gambuti


Luigi Pengue, questo era il suo nome, ma per tutti noi era il Maestro Cavaliere, avendo prestato il servizio militare in cavalleria durante la prima guerra mondiale. Oggi, a distanza di tanti anni, lo ritrovo ancora presente nella mia mente, in una forte emozione di riscontro e in netto contrasto con quanto oggi la scuola sa dare ai ragazzi. Quella sua figura così ricca di umanità e di pazienza, in un ambiente dove la cultura non era ritenuta ancora così importate, per quell’esigenza vitale di forza lavoro necessaria per far fronte alle tante difficoltà di quell’era contadina tutta manuale, dove tra il vivere e sopravvivere non c’era poi tanta differenza. Ricordo con quanto amore ci raccontava di Edmondo De Amicis, e poi quella sua grande passione per la bella calligrafia. Ripeteva continuamente: la scuola bisogna amarla e che nessuno deve sentirsi diverso, ricco o povero troverà sempre la stessa accoglienza. Per questo ci raccontava spesso la storia di un ragazzo che, costretto a lavorare nei campi per la troppa povertà della sua famiglia, non poteva frequentare in modo normale la scuola, ma che aveva tanta voglia di imparare a leggere e scrivere. Un giorno quel ragazzo fu trovato seduto sul pavimento davanti la porta dell’aula, tutto preso ad ascoltare ciò che il maestro diceva ai suoi alunni, mentre prendeva appunti scrivendo con una penna fatta con uno zeppetto di legno appuntito ed un vasetto d’inchiostro ricavato da bacche di rovi. Il maestro, che casualmente si trovò ad uscire dall’aula, si trovò davanti questa inaspettata scena, e resosi conto della situazione invitò il ragazzo ad andare a casa, con la promessa che ogni giorno sarebbe andato da lui per insegnargli tutto quanto aveva voglia di sapere. E quando qualcuno di noi non si comportava proprio a modo, tirava fuori dalla tasca un temperino e preso un legnetto lo appuntiva, facendoci capire che non era necessario avere una stilografica con pennino d’oro per scrivere bene, quel legnetto era più che sufficiente. Allora noi chiedevamo scusa, ma lui ci aveva già perdonato. Oggi, purtroppo, non è più così. Ci sono ragazzi che non amano andare a scuola, perché spesso non si sentono amati o capiti da chi dovrebbe insegnare loro oltre che la didattica, la solidarietà, l’uguaglianza e tutti quei valori morali che sono l’essenza della vita. Ma cosa ancora peggiore è che ci sono maestri incapaci di trasmettere agli alunni quei valori che non siano soltanto nozioni di storia, di geografia, di matematica, di letteratura, perché sono loro stessi ad esserne sprovvisti. Insegnare non è come andare in ufficio o in fabbrica ma è qualcosa che sta al di sopra di una normale prestazione di lavoro. La Scuola, quella con al “S” maiuscola, non è un Ministero o una Banca, ma necessariamente deve risultare il punto di riferimento della società in cui si vive. Per ciò che sto dicendo, sento già un mormorio di critiche, ma soltanto di chi non sente la propria coscienza del tutto serena, perché i tanti insegnanti che danno l’anima, in un contesto divenuto tanto difficile da gestire, sanno che ho ragione e loro per primi subiscono le conseguenze di questa realtà. Perché qualcuno non prova a domandare ai ragazzi di qualche istituto di una scuola Elementare, Media o Superiore se la difficoltà maggiore è recepire una nozione di storia, di matematica, di filosofia , ecc. oppure dialogare con il proprio insegnante? E’ utopia immaginare una figura d’insegnante come Marco Columbro in “Caro Maestro”, oppure di Silvio Orlando in “Compagni di branco”, o ancora quella splendida figura di Paolo Villaggio in “Io speriamo che me la cavo”? Forse è chiedere davvero troppo, ma basterebbe molto meno per rendere ad un ragazzo una scuola normale. Cos’è oggi la scuola? Spesso è lo specchio di questa nostra società malata, perché anche la scuola si è uniformata al resto, o meglio, come usano dire i ragazzi: siamo tutti, o quasi tutti clonati, come in qualsiasi altro campo lavorativo (qualcuno potrebbe dire, ad avercelo) in cui operiamo. In un istituto romano di scuola media, non statale, un ragazzo si è rivolto ad una compagna di classe chiamandola “sporca ebrea”. M. ragazzo di grande sensibilità, corso in difesa della mortificata compagna, ha mollato tre o quattro ceffoni di buona fattura all’arrogante compagno di classe. La preside, non laica, in un giudizio non certamente salomonico ha pensato di risolvere il grave episodio di razzismo, addebitando a M. tre debiti formativi. Tanto, poi, per mettere a posto la nostra coscienza si può sempre andare a chiedere scusa a Lungotevere De’ Cenci.

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